domenica 26 ottobre 2014

DEPRESSIONE E SEPARAZIONE


La depressione è una malattia della mancanza della volontà e/o del desiderio.

Stare in una relazione è volontà e desiderio. 
Da qui, purtroppo, nasce una profonda antitesi. 
Entriamo nel dettaglio di questa dinamica.
Chi è depresso, chi vive un periodo depressivo all’interno di un quadro clinico di tipo bipolare o ciclotimico, o chi semplicemente vive un periodo depressivo, è caratterizzato dalla mancanza totale o parziale della volontà e/o del desiderio per cui ha grande difficoltà a impegnarsi in qualsiasi tipo di attività, a maggior ragione in quelle a forte contenuto emotivo e affettivo come stare in una relazione sentimentale e/o affettiva. Da qui può nascere un senso di oppressione, di eccessivo carico di responsabilità, di eccessivo impegno, tutti dovuti allo stare in relazione con un’altra persona. 
Ecco che può nascere un desiderio di fuga volto ad alleggerire questo carico emotivo e affettivo che si vive nella relazione. Se si mette in atto la fuga, ci si potrebbe pentirsene nel momento in cui la depressione va via e rendersi conto che il desiderio di seperazione nasceva da una spinta depressiva e non esistenziale o di crisi di coppia. 
Conseguentemente mai prendere la decisione di separarsi all’interno di un periodo depressivo, ma semplicemente far presente al proprio partner che si desidera stare un po’ soli, ripiegarsi in sé.
Allo stesso tempo il partner non deve insistere affinché la persona depressa compia uno sforzo di volontà, che si dia una svolta, che s’impegni maggiormente nella relazione. Il partner depresso non ha volontà sufficiente per impegnarsi in tutto questo. Se la depressione dovesse prolungarsi insistere unicamente perché l’altro accetti di curarsi, essere assertivi su quest’ultimo aspetto. Spesso chi è depresso non riconosce di esserlo e tende ad attribuire le cause del suo malessere a crisi esistenziali e a cause esterne o a un malessere di coppia. Aiutarlo ad accettare la dimensione di malattia della depressione significa aver già fatto un enorme passo in avanti.

Roberto Cavaliere Psicoterapeuta


IL SESSO COME CURA PER IL DISTURBO BIPOLARE ?


Il sesso può essere una cura.

A dirlo, basandosi sulla propria esperienza personale, è Sarah Defrates, una donna gallese di 47 anni che vive a Bristol, madre di due figli. È lei l'autrice di"Orgasm@36", un libro in cui racconta di come abbia iniziato a soffire di disturbi bipolari e di come il sesso sia riuscito ad essere il miglior farmaco possibile.

"Gli orgasmi mi danno un sollievo tale che non potrei paragonarli a nessun medicinale", ha rivelato.

Sospinta da una terribile altalena psicologica, che la faceva passare da stati di eccitamento improvviso a brusche cadute nella depressione, Defrates ha scoperto che il sesso riusciva a darle un equilibrio. Da allora ha avuto più di novanta amanti.

Una soluzione al suo disturbo ma al tempo stesso un problema per la sua vita privata: mantenere rapporti stabili con i propri partner era impossibile, dal momento che la spinta verso la ricerca del piacere la porta spesso all'adulterio. Anche in famiglia non è stato facile ma, amette la Defrates, i suoi figli le sono sempre stati vicini, una volta venuti a conoscenza della storia della loro madre. 


COME COMPORTARSI CON UN FAMILIARE DEPRESSO


Come comportarsi con un familiare depresso? Cosa fare per un amico, un’amica che è “sempre giù”, oltre ogni comprensione? L’istinto è di stimolarlo a reagire. A scuotersi, a uscire “con le sue forze” da quella cupa apatia o doloroso isolamento. Niente di più sbagliato. La prima cosa che parenti e amici devono comprendere è che la depressione è una malattia della volontà, che annulla la volontà. Se si farà proprio questo concetto, si eviteranno anche frustrazioni e scoraggiamenti o, al contrario, di sentirsi irritati per il fatto che ogni sollecitazione, ogni intervento con una persona depressa sembra cadere nel vuoto: tutto resta - o pesantemente ritorna - come prima. E’ perciò un grave errore colpevolizzare l’interessato per la mancanza di miglioramenti dicendo che “non vuole collaborare”, “non vuol provare”, “non vuol fare”. Il vostro congiunto o amico soffre già di tali sensi di colpa che quanti gli stanno accanto devono piuttosto cercace di alleviarglieli. La depressione è una malattia che induce perdita di interesse per il futuro, una tristezza senza speranza, una malinconia invalidante. Alla persona che ne soffre perciò dite che non si sforzi, nè si preoccupi, che starà meglio e potrà fare tutto come gli altri (o come una volta) appena la terapia comincerà a fare effetto. Del resto, a un malato di polmonite o a chi si è rotto una gamba direste mai:”sforzati di star bene”,”devi farcela da solo”, “muoviti e vedrai”. Come per tutte le malattie, così per la depressione - e per il suo opposto, la mania - la cosa più importante e urgente è aiutare chi ne soffre a trovare una corretta diagnosi e la corretta terapia. In una parola, il medico giusto. Lo specialista del settore è lo psichiatra. Molti nutrono ancora dei pregiudizi su questa figura medica (“il dottore dei matti”) e si può incontrare un rifiuto così motivato: “Andare dallo psichiatra? Ma non sono pazzo, io!”. E’ compito di chi vive accanto al paziente spiegargli che la psichiatria ha fatto enormi passi avanti, e che molti, e diversissimi dalla “pazzia”, sono i disturbi di cui si occupa. Potrà servire il caso di conoscenti oppure di personaggi famosi di cui si sa che sono o sono stati in cura da uno psichiatra.
Anche in assenza di questo pregiudizio, in molti casi è comunque difficile convincere il malato a consultare un medico: fa parte del quadro della depressione (e ancora più della mania). Infatti, chi ne soffre, spesso non ritiene di essere malato oppure si oppone a qualunque terapia perchè convinto dell’inguaribilità del suo caso (“per me non c’è niente da fare”). O, ancora, respinge l’idea che il suo soffrire possa essere legato a fattori “fisici” e pertanto rifiuta ogni farmaco o altra terapia biologica. Convincere chi soffre di un disturbo dell’umore (depressione o mania) ad andare dal medico è quindi il primo imperativo per chi sta accanto ad un malato di depressione. Occorre molta fermezza su questo punto, anche se l’atteggiamento sarà, e deve essere, di caldo affetto. Comprensione, disponibilità all’ascolto, partecipazione al suo profondo dolore sono l’altro aiuto fondamentale da offrire a chi ha dentro il gelo e la solitudine della depressione, insieme con parole di incoraggiamento, di dichiarata certezza che si può uscire dal tunnel. E’ inutile, invece, stare a discutere sui singoli punti delle visione pessimistica del depresso, sulle sue convinzioni di indegnità o incapacità. Non lo si convincerà mai del contrario qualunque argomentazione gli si proponga. Si risponda piuttosto:” E’ la malattia che ti fa pensare così, una volta tolti gli occhiali della depressione vedrai le cose in altro modo”. Nella fase acuta può essere necessario provvedere o aiutare il depresso per i bisogni concreti, quali, il vestiario, l’igiene personale, il mangiare regolarmente, le commissioni quotidiane. Una volta arrivati alla visita medica con lo specialista, il compito dei familiari o amici non termina. Occorre che si stabilisca un’alleanza terapeutica fra medico e familiari. Inoltre, parenti e amici non devono sottovalutare qualsiasi affermazione o progetto di suicidio del paziente, ma devono riferirne al medico. Perchè non è affato vero quel che comunemente si crede, e cioè “che chi lo dice non lo fa”. Sarà il medico a valutare la gravità o meno del rischio. Dopo l’incontro con lo specialista, occorre controllare che il paziente assuma regolarmente i farmaci nelle dosi prescritte; ciò sopratutto perchè nei primi giorni, per possibili effetti collaterali, potrà anche avere l’impressione di stare peggio di prima e, dunque, voler abbandonare la terapia. In questo primo periodo e in attesa che si manifestino gli effetti terapeutici del farmaco (occorrono in genere da 2 a 4 settimane) è perciò di fondamentale importanza offrire sostegno.
La collaborazione di familiari e/o amici prosegue con l’eventuale ricerca di una diversa cura - o di un diverso specialista - se la terapia si rivelasse veramente inefficace. Occorre ricordare alla persona depressa che è possibile, “normale”, dover cambiare farmaco anche più volte fino a trovare quello adatto al suo caso. Va ripetuto senza stancarsi che la risposta ai farmaci è molto individuale, ma che la terapia giusta, “quella che ti tira fuori dal pozzo buio”, c’è, esiste, e la si troverà. L’importante è non mollare.

Quando occorre consultare il medico
Esser giù di corda, essere a terra, non aver voglia di fare niente, oppure, al contrario, essere particolarmente “gasati” e su di giri è esperienza normale della vita.. Quando diventa non normale e occorre preoccuparsi? Gli psichiatri offrono indicazioni di tempo piuttosto precise: se una situazione di tristezza, di perdita di interesse per le attività quotidiane, di angoscia, dura più di due settimane, o se una fase di mania si prolunga oltre la settimana è necessario il trattamento medico.

Il ruolo della famiglia continua dopo la crisi
Una volta che il paziente sia uscito dalla fase depressiva o maniacale, la famiglia e/o gli amici continuano ad avere un ruolo importante. Il disturbo, infatti, è ciclico; sono dunque possibili le ricadute. E’ importante che chi sta accanto al paziente sappia cogliere gli eventuali primi sintomi di una nuova crisi. Non è facile perchè i segni premonitori possono essere molto lievi. D’altro canto, non bisogna incorrere nell’errore di una sorveglianza ansiosa e asfissiante che faccia sentire l’interessato un vigilato speciale. Nè questa attenzione deve diventare un assillo per tutta la famiglia. I familiari, per calmare il proprio allarme, devono ricordare a sè stessi quel che ripetono ai loro cari predisposti a disturbi dell’umore: con le terapie appropriate, dalla depressione (e dalla mania) si esce nel 80-90 per cento dei casi.

Quello che non va detto

● “Ma cerca di tirarti su, tutti hanno dei problemi. Devi farcela tu, con le tue forze”.
● “Esci, vedi gente e vedrai che starai meglio. Certo che se stai sempre lì a lamentarti......”. “Fai qualcosa di utile, lavora e vedrai che ti passa tutto”.
● “Ma guarda a chi sta peggio di te e ha dei problemi veri. Tu hai il lavoro, la salute, sei giovane.....Cosa ti manca?”.
● “Se stai davvero male, è meglio che tu lasci questo lavoro (o questa relazione o questa città...)”.
● “Stai attento a non intossicarti, con i farmaci non si sa mai...”.
● “Cosa vuoi mai che ti faccia una pastiglia. Si, ti calmerà, si sa come sono i sedativi, ma non pensare che possa risolvere i tuoi problemi”.
● “Adesso stai bene, quindi smetti di prendere quelle pastiglie. Guarda che poi ti abitui e non puoi più farne a meno. Non vorrai drogarti... “.

Quello che deve essere detto

● “La depressione è una malattia come le altre. Non puoi pensare di uscirne da solo, senza cure. E con le cure, guarda che nel 80–90 per cento dei casi si può migliorare o star bene come prima”.
● “Non è tutto così nero come ti sembra. Sono gli occhiali della depressione a farti vedere tutto in negativo”.
● “Senti, finchè stai così male, non prendere decisioni. Non licenziarti (non separarti, non vendere la casa...). Può darsi che quando starai meglio tu veda le cose in un altro modo”.
● “Cerca di avere pazienza, continua con la cura. Sai che gli antidepressivi non fanno effetto subito. Ci vogliono 2 - 3 settimane, a volte 4. Poi starai meglio”.
● “E’ vero, adesso stai meglio, però per sospendere la cura senti prima il medico. Queste terapie hanno tempi precisi. Non devi correre il rischio di una ricaduta. Ti ricordi come stavi male?”.

fonte: http://www.progettoitacaasti.it/approfondimenti1.asp


IL MODO DI CAMMINARE INFLUENZA L'UMORE


Una ricerca canadese condotta dai ricercatori del Canadian Institute for Advanced Research (CIFAR) e del Queen’s University di Kingston ha rivelato come il modo di camminare, in modo arzillo o abbattuto, felice o triste, può condizionare l’umore. Si è giunti a questa convinzione dopo una serie di test a cui sono stati sottoposti alcuni volontari ai quali veniva chiesto appositamente di camminare in modo mogio o in modo vivace, registrando poi risultati e stati d’animo su una banca dati pubblicata di recente sul “Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry”. Ed è vero, l’andatura ha un effetto sulla psiche.
I 39 volontari man mano segnavano una lista di sensazioni provate prima, durante e dopo la camminata e in base a come fosse la camminata. La camminata veniva registrata sia al chiuso, sui tapis roulants, sia all’aperto. A fine esperimento si è visto che coloro che camminavano in modo più mogio, depresso e lento tendevano ad annotare e ricordare più termini negativi (“triste, pensieroso, abbattuto, malinconico…”) mentre coloro che si muovevano atteggiando sicurezza e vivacità ricordavano solo termini positivi (“felice, attivo, vivo, ottimista…”). Questo a prescindere da come fosse andata la loro giornata, dunque a prescindere da quale fosse il loro vero umore del momento. Il modo diverso di camminare lo aveva modificato radicalmente. Potrebbe essere un suggerimento importante per la cura di alcune forme di disturbi dell’umore, come la depressione o il disturbo bipolare.